Il neonato generalmente si affaccia su un’avventura biologica che
assomiglia sempre più ad una scommessa verso i rischi
dell’inquinamento dell’ambiente che i rispettivi nonni e genitori
hanno realizzato insieme con il cosiddetto progresso.
Già dalla culla, e poi quando muove i primi passi,
quindi va a scuola per imparare, infine lavora e fatica per
conquistare la pagnotta, oppure per acquisire anche i beni di
consumo non indispensabili ma ambiti perché sono uno status
symbol delle società moderne e globalizzate, può incappare nei
veleni ambientali.
In tutte queste circostanze di vita, l’essere umano si
trova esposto ad agenti nocivi di origine ambientale, che possono
entrare nell’organismo attraverso l’apparato respiratorio, oppure
ingeriti coi cibi o con le bevande. Una via di transito obbligata
è quella fornita dal circolo, in cui l’agente patogeno entra più o
meno rapidamente, a seconda delle condizioni fisiologiche delle
mucose delle strutture riceventi, ed in concentrazioni
generalmente proporzionali alle dose di esposizione. Da questa
specie di anticamera, il veleno può localizzarsi in uno o più
tessuti che vengono detti anche organi bersaglio. Questa
caratteristica, detta organotropismo, non è un’esclusiva ma un
trend preferenziale, basato soprattutto su dati statistici.
Infatti, i metalli pesanti vanno in ogni dove, per esempio il
mercurio si trova nei capelli, nelle unghie e nel cervello, ma
solo nel sistema nervoso provoca danni. Altro esempio è dato dal
piombo: esso va nel rene, nel cervello, nel midollo osseo
emopoietico, negli organi riproduttivi, oltre che nel fegato, e
reca danni a tutti gli organi tranne che nel fegato. In prima
battuta la presenza dei veleni è documentabile con la positività
degli indicatori biologici di esposizione.
Poi i veleni possono rimanere più o meno a lungo nel
tessuto della localizzazione primaria, e quindi essere rimossi e
spostarsi in altra sede, tra cui gli emuntori, ghiandole
sudoripare e rene in prima linea. Sia nella sede primaria, sia
sulle vie di uscita, l’agente nocivo può esplicare la sua
tossicità, a livello molecolare, cellulare, tessutale, o
sistemico. La natura ha provvisto questi bersagli di meccanismi di
difesa: il loro successo dipende dalla concentrazione del veleno,
dalle capacità delle difese, oltre che dalla durata della noxa
patogena. Quando le difese soccombono, dopo un tempo di latenza,
alla comparsa dei primi sintomi, con la positività degli
indicatori biologici di danno, è superato l’orizzonte clinico. Da
questo momento in poi è possibile solo fare diagnosi precoce, ma
non più prevenzione vera.
Attraverso l’anamnesi, insieme con una serie di
interventi diagnostici, analitici e/o strumentali, il sanitario
giunge alla diagnosi eziologica, preziosa nella patologia
ambientale, perché permette al paziente di essere rimosso da
un’ulteriore esposizione patogena, e nel contempo trattato con
terapie adeguate ed efficaci. In assenza di questi interventi, la
patologia può aggravarsi fino al superamento del confine della
irreversibilità delle lesioni. A questo punto il sanitario è
portato a ricorrere al ricambismo del tessuto o dell’organo
divenuti inservibili, oppure, quando si tratta di cancro, a quella
trista sequela di mutilazioni chirurgiche, accompagnate
dall’avvelenamento chemioterapico o dalle ustioni radioterapiche.
Da questa tappa in poi, al paziente non si prospetta altra
possibilità che soffrire di un depauperamento della qualità del
suo campare tanto insostenibile che il sopraggiungere dei limiti
dell’attesa di vita potrebbe apparire come evento liberatorio. |